In ambito clinico, la comunicazione interpersonale è lo strumento principale affinché lo psicologo entri in contatto con il paziente e comunichi con lui.
Gli studi sulla comunicazione interpersonale si basano sui messaggi verbali sia sui segnali non verbali e talvolta inconsapevoli.
Durante una seduta psicologica il clinico raccoglie informazioni sia sui dati riferiti dal paziente sia sul suo linguaggio fisico. Ad esempio, il toccarsi i capelli, la postura assunta, il contatto oculare sono movimenti attuati per ridurre l’ansia.
I messaggi inviati non verbalmente, non sono sottoposti a censura da parte del soggetto e sono difficilmente controllabili. Nell’essere umano, il linguaggio non verbale è il primo a comparire quale modalità espressiva. Esso è, pertanto, filologicamente e biologicamente più antico e più profondo a livello inconscio.
Watzlawick è stato uno dei maggiori teorici della comunicazione. La sua teoria sulla pragmatica della comunicazione umana descrive sia gli assiomi principali che regolano la comunicazione interpersonale, sia le forme disfunzionali di comunicazione. Secondo lo studioso, è impossibile non comunicare.
Il silenzio è, infatti, un modo per indicare all’interlocutore il desiderio di non voler dialogare; oppure può esprimere l’accordo in merito ad una decisione; oppure può esprimere l’accordo in merito ad una decisione presa dall’interlocutore (“Chi tace acconsente”).
In altre parole il silenzio è un messaggio decodificato in funzione della situazione nella quale ci si trova.
La relazione tra terapeuta e paziente è fondata sulla comunicazione.
In essa si attivano le stesse dinamiche che si ritrovano nelle relazioni interpersonali.
La comunicazione deve essere efficace, in altre parole deve produrre un effetto e, pertanto, il messaggio inviato dall’emittente deve essere correttamente decodificato dal ricevente.
L’incontro con uno psicologo comporta sempre una reazione ansiosa sia da parte del paziente sia da parte del clinico.
Il paziente sa che dovrà parlare di sé e della propria storia, il clinico sa che sarà giudicato per la propria professionalità.
Questa fase è particolarmente delicata è costituisce l’aggancio utile per poter avviare la relazione terapeutica. Durante il colloquio potranno attivarsi strategie per evitare di affrontare argomenti particolarmente critici. In tal caso il paziente potrà adottare una comunicazione evasiva, seduttiva o aggressiva.
Nel primo caso il soggetto eluderà le domande del clinico spostando l’attenzione su altri argomenti; nel secondo caso attuerà manovre seduttive quasi a voler conquistare lo psicologo; nel terzo caso attaccherà il clinico, deridendolo, insultandolo o umiliando le sue capacità professionali.
Il paziente potrà adottare delle manovre comunicative per ingrandire la propria immagine o delle strategie volte ad ottenere qualcosa dal clinico.
Lo psicologo si difenderà da questi atteggiamenti con le contromisure di sicurezza pur badando a non cadere nell’inganno preparato dal paziente di attuare le stesse modalità comunicative interpersonali adottate usualmente.
Tra le forme disfunzionali della comunicazione citiamo il doppio legame, in altre parole, espressioni che affermano e negano contemporaneamente il medesimo concetto ed i messaggi di disconferma che mirano a squalificare l’immagine di colui che parla (“Tu non esisti”).
Queste gravi regole comunicative hanno una valenza distruttiva sulla psiche del soggetto poiché mortificano l’identità individuale.
Se tali forme espressive sono utilizzate per lungo tempo e, soprattutto, in una fase evolutiva delicata, possono condurre a disagi psicologici rilevanti.
Dal punto di vista clinico, occorre non rispondere in modo complementare ad alcuna delle forme comunicative disfunzionali adottate dal paziente, piuttosto accogliere empaticamente quanto invia verbalmente restituendo i contenuti in modo costruttivo.
Il clinico attraverso una comunicazione efficace agirà sul piano affettivo, cognitivo ed interpersonale conducendo il paziente verso il benessere psicofisico e relazionale.