Le cronache quotidiane e la diretta esperienza degli adulti che vivono a contatto con gli adolescenti e ne hanno responsabilità educativa registrano sempre più spesso quanto sia diffuso il fenomeno della piccola “cattiveria” tra ragazzi che, ultimamente, sembra conoscere una esacerbazione, passando sempre più spesso dalle semplice e banali manifestazioni del dispetto tra coetanei a episodi di incontrollata espressione di aggressività e crudeltà, e non solo nella strada o nei luoghi di svago, ma all’interno di istituzioni educative come la scuola.
Sono sempre più frequenti i casi di estorsioni in classe, ricatti, minacce, insulti, offese, furti, maltrattamenti, percosse verso i compagni più deboli ed indifesi trattati come fossero giocattoli umani da parte di compagni che si rendono veri aguzzini dei loro coetanei.
Tale fenomeno di violenza fisica e psicologica tra coetanei è meglio conosciuto come “bullismo” cioè quel particolare tipo di interazione deviata tra ragazzi, per cui uno è protagonista di atti di aggressione e prevaricazione ed un altro si trova, suo malgrado, nel ruolo della vittima e del perseguitato.
Si tratta di una forma di oppressione, in cui una persona sperimenta, per opera di un compagno prevaricatore, una condizione di profonda sofferenza, con senso di impotenza, di grave svalutazione della propria identità, di crudele emarginazione dal gruppo. Il bullismo può essere considerato come aspetto di un più generale comportamento antisociale che si caratterizza per la mancanza di rispetto delle regole, per la modalità di rapportarsi agli altri superficialmente, per una totale assenza di empatia e uno stile relazionale fondato sul potere piuttosto che sul legame emotivo.
Il fenomeno sembra si manifesti in forme più gravi e con maggiore frequenza oggi rispetto quindici-venti anni fa.
L’incidenza maggiore si verifica in ambito scolastico e gli insegnanti hanno difficoltà a mettere in atto strategie di intervento diretto per contrastarlo.
Per quanto riguarda le famiglie, i genitori delle vittime e, in particolare, quelli dei prevaricatori, generalmente non sono a conoscenza del problema, e di conseguenza ne parlano poco con i figli.
Secondo un’ottica complessa, l’analisi dei fattori che incidono sul fenomeno e lo determinano richiama una molteplicità causale dei fattori che intervengono nella manifestazione di tale tipo di disadattamento, sottolineando la compresenza di caratteristiche personali ed ambientali nel determinare il rischio psicosociale che possono essere individuati in un ambiente familiare caratterizzato dalla mancanza di calore e di coinvolgimento emotivo; un atteggiamento educativo permissivo e tollerante, che non pone chiari limiti al comportamento aggressivo del bambino e che non stabilisce regole coerenti; l’uso coercitivo del “potere” da parte dei genitori nell’apprendimento di un modello sociale di comportamento volto alla competitività ed all’aggressività.
Vi sono spesso condizioni familiari sovente inadeguate, in cui i ragazzi possono avere sviluppato un certo grado di ostilità verso l’ambiente, e ciò può spiegare la soddisfazione provata nel provocare danno agli altri.
Aiutare i ragazzi a chiedere aiuto rappresenta un grande passo avanti per attivare tutte quelle risorse necessarie a proteggersi e tutelarsi.