Vi sono delle sofferenze cosiddette “normali”, quelle che riguardano ciascun essere umano, e vi sono invece delle sofferenze che consideriamo come patologia.
Che differenza c’è tra una sofferenza che definiamo normale e una sofferenza patologica?
Freud considerava già un secolo fa, che il fine del trattamento psicoterapico fosse quello di rendere una infelicità insopportabile e soggettiva (la sofferenza patologica) in una sofferenza o “infelicità” condivisibile con tutto il genere umano.
In altre parole, egli riteneva che il compito della psicoterapia non fosse quello di trovare la chiave della felicità, ma che in realtà riuscisse a rendere vivibile l’esistenza umana tollerando le sofferenze necessarie.
La sofferenza che si riferisce alla patologia è una sofferenza che impedisce d’abitudine di gioire, è piuttosto qualche cosa che per curare il dolore impedisce in molti casi di vivere in modo più o meno esteso il piacere. Il risultato finale di questa sofferenza penalizza tutti i vari ambiti della vita: sociale, lavorativo e affettivo.
La sofferenza che attiene all’ambito patologico è spesso pervasiva, non lascia libera la persona che sente di vivere un cambiamento in senso negativo.
Chi chiede aiuto spesso riferisce il bisogno di ritornare in uno stato antecedente, dove tutto era gestito e gestibile. Il compito del terapeuta è quello di sintonizzarsi con il vissuto della persona per poterla comprendere nella sua sofferenza ed aiutarla senza giudizio. Tramite il percorso terapeutico l’individuo acquisisce le conoscenze e gli strumenti per affrontare e fronteggiare i problemi che attanagliano l’esistenza umana.